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WITNESS - IL TESTIMONE
(WITNESS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 13 giugno 1985
 
di Peter Weir, con Harrison Ford, Kelly McGillis, Lukas Haas, Danny Glover (Stati Uniti, 1985)
 
Secondo film girato con capitale americano dal regista australiano autore del bellissimo PICNICK AT HANGING ROCK (1975), questo WITNESS cui Cannes ha conferito l'onore di inaugurare il suo ultimo festival, conferma l'impressione suscitata dal precedente UN ANNO VISSUTO PERICOLOSAMENTE (1983).

Conferma che un cineasta di talento, uno sguardo toccato dalla grazia conserva la propria qualità anche emigrando. Anche girando qualcosa di non esattamente congeniale (una faccenda di poliziotti corrotti e relativi regolamenti di conti) con un attore come Harrison Ford. Più portato alla frusta di Indiana Jones che alla introspezione psicologica cara al regista australiano. Contraddittoriamente (ma WITNESS è sicuramente un film contraddittorio) conferma anche la difficoltà di essere sé stessi nel sistema del grande cinema contemporaneo e della macchina da spettacoli americana. Se le regole del gioco commerciale gli affidano una vicenda poliziesca convenzionale, Weir la sviluppa a modo suo. Ambientandola, com'è ormai noto, fra gli Amish. Una comunità anabattista della Pennsylvania, che dei primi immigrati di origine tedesca ha conservato la lingua- e che rifiuta gli elementi più evidenti del modernismo, come l'elettricità, l'automobile radio, Tv e via dicendo.Questo, non perché a Weir interessi l'ecologia. Ma perché in ogni suo film il protagonista compie una specie di viaggio iniziatico. In un territorio straniero, in una cultura straniera, in un mondo quasi irreale che lo pone in una condizione ambigua. E che lo obbliga ad un esame di coscienza. Cosi succedeva al reporter internazionale, che in UN ANNO VISSUTO PERICOLOSAMENTE si ritrovava nell'Asia dei monsoni e delle rivoluzioni politiche. Cosi capita al poliziotto Indiana Jones, che a poche miglia da Filadelfia riscopre la civiltà rurale, l'assenza del telefono e dell'acqua corrente. Il viaggio degli eroi di Weir, così come quello degli spettatori dei suoi film non approda ad una conoscenza. La loro cultura è impotente a risolvere gli interrogativi posti dalla nuova condizione alla quale vengono confrontati. Cosi l'insegnante di PICNIC chiarirà i principi geologici delle rocce, ma non il loro mistero. Cosi il reporter di UN ANNO appena raggiunta l'illusione di aver afferrato il segreto dell'intrigo asiatico si vedrà colpito nella sua facoltà più preziosa, la vista. Cosi il poliziotto di WITNESS finalmente cosciente dei valori di una civiltà perduta, giungerà troppo tardi per impedirne l'estinzione. La purezza esistenziale degli Amish si consuma fra le autostrade e le visite dei turisti armati di macchine fotografiche: ma, come sempre l'eroe di Weir giunge in ritardo per mutare la corsa del tempo. Non gli resta che fuggire: quasi vergognosamente, come il fotografo verso l'aeroporto circondato dai rivoluzionari di UN ANNO. Più dignitosamente, con un sorriso triste, ma non certo vittoriosamente, come il nostro di WITNESS, incapace non dico di penetrare il mistero degli Amish, ma di condurre a buon termine la sua love story con la giovane vedova (sensibile, sconosciuta e adeguatissima Kelly McGillis).

Weir è bravo a riuscire a riproporre queste sue preoccupazioni anche nell'ingranaggio del grande spettacolo. Pur nelle regole di un gioco più grande di lui trova il tempo di soffermarsi sugli sguardi, sui silenzi fra i personaggi (ci pensa comunque la musica di Maurice Jarre ad invadere quel che resta...) sugli spazi che il suo modo di filmare sembra aprire fra i personaggi, disperatamente tesi ad un'impossibile comprensione. Un cinema (l'eredità australiana...) vicino alla natura, ad un contatto ancora fisico con l'ambiente. Ed una percezione (tutta anglosassone) quasi tecnologica, della dinamica: che sfocia in scene d'azione di grande efficacia, come l'assassinio e la resa dei conti finale. Come i suoi personaggi, anche il cinema di Weir e un cinema che ragiona. E scusate se è poco. Cosi il cattivo, il capo dei poliziotti corrotti, non viene sbrigativamente liquidato con una pallottola fra gli occhi. Ma la sceneggiatura di Weir ha l'intelligenza di fargli "capire" (sposando cosi il significato di tutto l'incontro con la civiltà estranea) l'insensatezza del proprio modo d'agire. La ragione, il raziocinio è forse più facile da conservarsi che non qualcosa di più misterioso. Qualcosa che il cinema di Weir sta perdendo e che costituiva la sua particolarità più prèziosa. Quell'irrazionale, quel fantastico che i personaggi dei suoi film tentano inutilmente di spiegare. E che il regista riusciva a filmare.

A contatto con le formule del delitto e castigo (e con quelle del m'ama o non m'ama) qualcosa è rimasto: dei personaggi che sembrano affiorare da tempo, una statua che incombe sul ragazzino nell'atrio della stazione. E, soprattutto, il momento nel silo di grano durante il quale Harrison Ford vede (e crede di esser visto) dall'assassino: ma il controcampo (visto dal cattivo) dimostra a noi spettatori che non si vive di verità riflesse. Lo sguardo verso l'alto del silo, dove sta nascosto l'eroe, si perde nell'oscurità. Magia dell'illusione fotografica, magia di un cinema che, come gli Amish, si perde probabilmente per la strada.


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